Dopo le giornate lente ed assolate passate a Sucre, lo spostamento nella città mineraria di Potosì ha rappresentato per noi una nuova immersione nelle Ande più maestose.
Situata a 4100 metri d'altezza e spazzata tutto l'anno da venti gelidi che rendono già di per sé la vita in città una sofferenza, Potosì è il simbolo per antonomasia della colonizzazione spagnola più avida e spietata in Sudamerica.
Le circostanze della fondazione della città sono avvolte nella leggenda. Si dice che nel 1544, all'indomani della Conquista dell'Impero incaico, l'indigeno Diego Huallpa stesse portando al pascolo nella regione i suoi lama. Ad un certo punto, uno dei lama brucò un filo d'erba e dal suolo cominciò a sgorgare un liquido denso e grigiastro: era argento purissimo. La leggenda narra anche come l'indigeno non riuscì a serbare per sé il segreto della scoperta, ed in poco tempo gli Spagnoli diedero inizio all'estrazione del materiale prezioso dalle viscere di quello che da allora sarebbe stato chiamato Cerro Rico, la Montagna della Ricchezza.
Quasi cinquecento anni e otto milioni di minatori morti dopo, il Cerro Rico si staglia ancora lì, nonostante le esplosioni, gli scavi e le trapanature che hanno subito le sue viscere e le sue pendici.
La città di Potosì fu così creata dall'esigenza di controllare da vicino i lavori di scavo minerario. L'aspetto odierno è il risultato dell'incredibile afflusso di denaro che per secoli si riversò nelle tasche dell'aristocrazia spagnola cittadina. I nobili facevano a gara per costruire le chiese più imponenti, i palazzi più sfarzosi, i campanili più alti. Tuttavia, camminando per le strette strade di questa città inerpicata sulle montagne, l'atmosfera pare cupa e opprimente, come se risentisse di tutte le violenze, le ingiustizie e gli eccessi perpetrati qui nel corso di tre secoli di colonizzazione.
Ciò che ha colpito di più la nostra immaginazione sono stati comunque i conventi e le chiese che si susseguono innumerevoli a Potosì, così diversi tra loro nell'estetica e nella storia.
Il nostro stesso ostello, il Maria Victoria, era un antico convento di suore rimasto del tutto intatto nonostante il trascorrere del tempo - magnifico patio in pietra e camere ghiacciate senza riscaldamento comprese !!
Il convento di Santa Teresa, poi, ci ha impressionato per il lusso smodato degli ornamenti sacri, tutti in oro e argento purissimo, e per la vita assai contraddittoria che vi spendevano le monache. Esse infatti erano tenute ai più rigidi vincoli di silenzio, castità e isolamento, ma allo stesso tempo avevano diritto a doti milionarie che passavano al convento, e potevano persino costruirsi meravigliose cappelle private istoriate dai migliori pittori e scultori del tempo. In risposta alle nostre domande, la guida ci ha spiegato che il convento di Santa Teresa era un vero e proprio luogo di cooptazione dell'élite femminile spagnola cittadina nelle più alte gerarchie religiose. Infatti, sebbene le monache vivessero in uno stato di segregazione e povertà materiale, esse gestivano in realtà un grande potere simbolico e persino economico, spostando grandi quantità di denaro nelle differenti opere religiose. Per questo motivo, solo le giovani donne provenienti dalle famiglie più facoltose erano accettate nel convento. Ed ovviamente, le monache erano strettamente criolle, ovvero spagnole nate in Bolivia da genitori spagnoli, senza nessuna possibilità d'ingresso per le mestize - figlie di spagnoli e indigene - né, ovviamente, per le indie.
Roofs of Potosi, Bolivia - click on the picture to see the entire photogallery |
Atmosfera del tutto differente è stata quella che abbiamo respirato entrando nel convento dei francescani. Qui, infatti, i preti missionari accoglievano clandestinamente gli indigeni che tentavano di scappare al duro regime di schiavitù e sfruttamento al quale erano sottoposti nelle miniere. I francescani li proteggevano e nascondevano, e molti tra di essi restavano a tempo indeterminato nel convento. La conferma di queste storie ci è arrivata visitando la cripta del convento di San Francesco, dove sono conservate molte ossa di cui è ormai impossibile discernere l'appartenenza, di modo che i resti mortali degli indios fuggiaschi e dei preti spagnoli che tentarono di aiutarli in vita sono mescolati per l'eternità nell'uguaglianza che cercarono di praticare in vita.
I cinque giorni che abbiamo passato a Potosì, resistendo al freddo e alle vertigini causate dall'altitudine, sono stati tra i più intensi del nostro viaggio. Così, per spezzare il ciclo di visite e di stanchezza, ci siamo concessi una visita alle acque termali di Tarapaya.
Quest'escursione di una giornata, che secondo le nostre informazioni doveva costituire uno svago senza troppe pretese, si è rivelata in realtà una gita meravigliosa in una natura dolce e ospitale. Dopo un'oretta di minibus che dalla città ci lasciò su una strada nel mezzo del nulla, iniziammo una camminata tra le montagne che ci portò infine ad un meraviglioso lago perfettamente circolare. Si trattava dell'Occhio dell'Inca, uno specchio d'acqua sulfurea a 70 gradi, che la leggenda vuole essere l'occhio di Huayna Capac, l'imperatore incaico che scoperse la località e se ne innamorò al punto da tornarvi ogni estate per rigenerarsi con le acque e i fanghi benefici del lago.
Il nostro ricordo di Potosì, ad ogni modo, resterà segnato indelebilmente nella nostra memoria per ragioni molto diverse dalla bellezza dell'architettura religiosa o dal benessere causatoci dalle acque termali.
Non potevamo infatti partire dalla città senza aver visitato le miniere d'argento che da 500 anni depredano il cuore del Cerro Rico delle sue risorse, o senza aver parlato con i minatori che ogni giorno rischiano la vita nelle viscere della terra, combattendo contro il rischio concreto di una morte per incidente e la certezza a lungo termine di contrarre la silicosi, la terribile malattia dei polmoni che si avvera letale in una gran percentuale dei casi.
L'esperienza in miniera è di quelle così forti da non darti la possibilità di restare neutrale. Molti dei viaggiatori che abbiamo incontrato a Potosì si sono rifiutati di compiere la visita, ritenendola un puro esercizio di voyeurismo da parte dei turisti occidentali. Altri invece vi hanno partecipato senza riuscire a portarla a termine, troppo choccati da ciò che avevano visto o prostrati dalle estreme condizioni ambientali nella miniera. Pur consapevoli dei rischi, morali e fisici, che comportava una tale veritiera 'discesa negli Inferi', noi abbiamo comunque deciso di prendere parte al giro delle miniera, per toccare con mano la realtà delle vite di queste persone che si riproducono pressoché inalterate dai tempi della Colonia.
La nostra guida in quest'esplorazione è stato Beymar, un ragazzo di 28 anni che era stato minatore quando era solo un bambino, prima che suo padre lo prendesse per un orecchio e lo obbligasse ad andare a La Paz per studiare turismo, salvandolo al destino cui tanti suoi compagni meno fortunati sono stati destinati.
Beymar è una persona incredibile, che unisce una formazione universitaria sulla storia delle miniere ad un rispetto immenso per le tradizioni - e le manie - dei minatori. La nostra visita è cominciata con un giro al 'Mercato delle Miniere', dove i lavoratori comprano i pochi beni necessari alla giornata di estrazione sottoterra. Innanzitutto il puro, un disgustoso alcolico a 96 gradi, contenuto in una bottiglia per acqua ossigenata che reca l'inquietante dicitura 'alcool potabile'. Con questo trago - bevanda - i minatori si stordiscono nelle giornate più dure e puntualmente si ubriacano fino all'incoscienza nei weekend, per festeggiare un'altra settimana da sopravvissuti. Poi le foglie di coca, utilizzate metodicamente da tutti i minatori per ammazzare la fatica e la fame. Già gli Incas le utilizzavano perché masticare la coca rendeva il popolo più tranquillo e mansueto. I conquistadores proibirono all'inizio il suo consumo, seguendo l'idea che si trattasse di un rituale pagano. Tuttavia, quando anche la Chiesa si rese conto che la coca rendeva gli schiavi più resistenti e docili, il consumo delle foglie ridivenne legale ed anzi venne incoraggiato al punto che ancora oggi nessun minatore si sognerebbe di entrare in miniera senza un sacchetto con sé. Infine, ça va sans dire, i lavoratori acquistano al mercato la dinamite, che si vende liberamente anche a bambini di 11-12 anni. Beymar ci mostra come si assembla il plastico con la nitroglicerina, e ci spiega come assistere ad un'esplosione sia una delle esperienze più devastanti che si possano fare in miniera. Innanzitutto perché il rumore lacera le orecchie e l'anima. "E' come un martello che ti spacca la testa e il cuore", ci spiega. Poi perché nessuno può mai garantire sugli esiti di un'esplosione nella miniera, per quanto 'controllata' essa sia. C'è sempre la possibilità di uno smottamento assassino della terra, di un rinculo imprevisto della dinamite, della rottura letale di un tubo del gas o dell'acqua. Beymar ci dice che nella miniera dove ci porterà lui non ci saranno esplosioni oggi, e che di questo dovremmo ringraziare Dio.
Commossi e già toccati dalle storie della nostra guida, acquistiamo un po' di coca e delle bibite non alcoliche da distribuire ai minatori dentro la montagna e ci rimettiamo sulla macchina di Beymar, che comincia a salire sul Cerro Rico. Mentre proseguiamo l'ascensione della montagna il nostro amico ci spiega che, delle centinaia di miniere che esistevano nel 1600, oggi ne sono rimaste aperte solo 22. Per 'miniera', ci dice Beymar, si intende l''ingresso' nella montagna. Ogni miniera veniva in passato amministrata da un gruppo di sovraintendenti spagnoli, e lavorata sempre dagli stessi schiavi - fino a che essi non morivano, ovviamente. L'estrazione forsennata e scriteriata dell'argento ha prosciugato le vene del Cerro Rico, ed oggi è molto raro imbattersi in un buon filone. Da qui la riduzione drastica del numero di miniere. Ovviamente i lavoratori non sono più schiavi, essendosi organizzati in cooperative di cui loro stessi possiedono delle percentuali a partire dall'inizio del 1900. Tuttavia, al padrone spagnolo dei tempi della colonia si è sostituito oggi il mercato. I minatori vivono di quello che vendono, vendono quello che estraggono e considerata la scarsità dell'argento sono obbligati a lavorare anche 12 ore al giorno nella pancia della montagna, con turni che non permettono loro di uscire per riposarsi, mangiare o fare una doccia.
Beymar ci spiega che la miniera che visiteremo noi si chiama 'Rosario' ed è stata aperta verso la fine del XIX° secolo. Ci armiamo di casco contro la caduta dei massi e di tuta gialla - ''diversa da quella dei minatori, per distinguervi in caso d'incidente'', ci dice la guida - ed entriamo nella galleria che ci porta in verso il centro della montagna. Il soffitto della miniera è bassissimo, poiché ogni centimetro di spazio rubato alla montagna è costato il lavoro e la vita di innumerevoli lavoratori. I minatori si muovono in assenza totale di luce, fatta eccezione per quella posta sulla lampadina sulla loro testa. Più si scende verso il basso, più il calore è insopportabile e le nostre tute da lavoro si inzuppano di sudore. L'aria è irrespirabile a causa degli effluvi tossici che permeano dalle pareti. Il suolo è scivoloso perché il fango si mischia con l'acqua che cola dalle pareti e solo grazie agli stivali di gomma riusciamo a mantenere un equilibrio precario. In più il soffitto si abbassa progressivamente fino a sfiorare il suolo in molti punti, obbligandoci ad avanzare carponi e a strisciare nel fango.
Come se non bastasse, dopo qualche minuto che camminiamo Beymar sente un fischio e ci esorta ad appiattirci contro il muro. Improvvisamente spuntano due minatori che spingono un carrello di ferro nel fango, facendolo sfilare a tutta velocità oltre di noi. Beymar ci spiega che è con questi carrelli, che non posseggono freni, che i lavoratori trasportano i minerali estratti e le pietre schizzate ovunque dopo le esplosioni. Ogni carrello può pesare fino a 150 kg, e sono sono solo in due a spingerlo.
Miners pushing a hand truck in the Rosario mine, Cerro Rico, Potosì - click on the picture to see the entire photogallery |
Continuando l'esplorazione, arriviamo in una zona dove si trova una voragine nel suolo da cui spunta una corda. Beymar ci spiega che buchi como questo vengono scavati ultimamente per cercare di esplorare delle parti di montagna rimaste intatte finora. Poi si china verso la buca e urla qualcosa. Dopo poco un uomo spunta fuori dal buio fitto e passa qualche minuto a parlare con noi. Ci dice di chiamarsi Mario, e di essere uno dei veterani della miniera. A quanto pare lavora nella Rosario già da 20 anni, cifra eccezionale per un minatore di Potosì. La maggioranza, infatti, anche escludendo gli incidenti mortali o invalidanti, si ammala di silicosi dopo circa otto anni di lavoro, e pochissimi superano i quindici anni in miniera, perché la malattia in stato avanzato comporta una bronchite cronica che rende gli uomini inabili.
Mario ci racconta tante storie e ci spiega di aver lavorato per due anni insieme a Beymar nella miniera: "Il problema è che fare il minatore per i bambini di Potosì è una sorta di prova di virilità. Quando sei a scuola c'è sempre qualcuno che ti sfida a farlo e tu devi mostrarti all'altezza. La prima settimana in quest'inferno vuoi morire, ogni sera torni a casa e non vuoi nemmeno sentir nominare il Cerro Rico. Poi però ti arriva la paga, e capisci che quei pochi soldi sono soldi tuoi, e li puoi spendere in puro o per far colpo sulle ragazze, e allora le settimane si accumulano una dopo l'altra e tu hai già la tua vita dietro di te. Quando Beymar iniziò a lavorare io avevo diciannove anni e lavoravo giù qui da 5. Si vedeva che era un ragazzo sveglio, uno che avrebbe potuto studiare, però non avrebbe mai abbandonato la miniera se suo padre non l'avesse obbligato ad andare a studiare a La Paz".
Mario poi ci saluta e torna nel suo buco e noi ci giriamo verso Beymar per ricevere da lui qualche commento, ma il nostro amico ci sorride in maniera imbarazzata e si rimette a camminare.
Piuttosto, Beymar ci informa che l'ultima tappa della nostra esplorazione sarà la visita al Tìo, il Diavolo.
All'inizio non capiamo esattamente cosa intenda la nostra guida, ma poi arriviamo in uno slargo nella miniera e realizziamo che cos'è il Tìo. Una statua di fango di grandi dimensioni dai tratti luciferini troneggia nello spiazzo, con tanto di corna e fauci spalancate. I lavoratori ne costruiscono una in ogni miniera. Il culto del Tìo risale ai tempi della Colonia, quando gli schiavi indigeni non si fidavano a pieno delle divinità importate dagli Spagnoli. Così, il regno della luce, la città, erano i luoghi della religione cattolica, di Dio e Gesù Cristo, i santi e i preti. Però la pancia della montagna apparteneva all'oscurità e alle forze degli abissi, cioè al Diavolo. Così, gli indios veneravano il Tìo, tentavano di farselo amico e di evitare la sua ira, che si manifestava invariabilmente con gli incidenti che portavano alla morte di così tanti minatori.
Il culto del Diavolo della miniera si è perpetrato fino al giorno d'oggi, ed i minatori cercano di accaparrarsi il favore del Tìo lasciando offerte di varia natura vicino alla sua effige. E così insieme a Beymar anche noi ci sediamo accanto alla statua, infiliamo una sigaretta accesa tra le labbra del mostro, poniamo delle foglie di coca tra le sue mani e brindiamo alla sua salute con sorsate di puro tritabudella che ci brucia la gola e solleva lo spirito. Niente a che vedere comunque con ciò che fanno i minatori ad ogni fine settimana, quando cantano e bevono fino all'incoscienza per ringraziare il Tìo di essere ancora vivi. O ciò che succede durante le feste per il Carnevale, quando all'alcool si aggiungono le decorazioni festive e il sangue di diversi lama sacrificati a maggior gloria del diavolo.
Beymar ci consiglia un film, che abbiamo poi visto e che ci ha commosso, sulle vicende dei minatori di Potosì. Si chiama El Minero del Diablo, e si trova in spagnolo, inglese e tedesco. E' un documentario sulla vita di un bambino di dodici anni che deve lavorare in miniera per vivere e sostenere la sua famiglia. Nella sua storia si riflettono le storie di Beymar, di Mario e di tante altre persone come loro. Vi consigliamo fortemente di procurarvi questa pellicola, ne vale proprio la pena!
Finalmente la visita è finita, e noi usciamo dalla miniera Rosario nel Cerro Rico con un magone nel cuore, ma anche con una consapevolezza diversa di una realtà così dura e difficile da immaginare senza averla, anche solo per qualche ora, toccata con mano.
Potosì, con i suoi alteri splendori e le imbarazzanti miserie, resterà una tappa paradigmatica del nostro viaggio in America latina, che serberemo nella memoria come monito contro la cupidigia dell'uomo e lo sfruttamento scellerato delle risorse della Madre Terra.
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