martedì 10 dicembre 2013

Nightwalkers


Lasciata La Paz, pensavamo di raggiungere direttamente l'ultima grande tappa del nostro meraviglioso soggiorno in Bolivia, il lago Titicaca. E invece, per quei meravigliosi cambiamenti repentini di programma e d'orizzonte che costellano ogni viaggio in cerca di fortuna come quello che abbiamo intrapreso noi, sul nostro cammino si è imbattuto Milton, un altro dei grandi personaggi della nostra avventura, e ogni piano studiato a tavolino è andato a farsi benedire.

Questo ragazzo boliviano dal nome profetico e dal sorriso disarmante sembra sentire dentro di sé una spinta continua alla ricerca del Paradiso Perduto, che nella sua speciale declinazione è il ventre rilucente e sconosciuto di Bolivia. In settimana è attivista civile e sviluppatore di progetti presso una ONG di La Paz. Il venerdi' sera, torna al suo sperduto paesino natio e parte in esplorazione dei monti e delle distese dove quasi nessuno ha messo piede mai. Ci siamo lasciati convincere dalle sue parole e dal suo entusiasmo a rendergli visita durante una delle sue trasferte ad Achacachi, il villaggio dove abita la sua famiglia, ed é stata una scelta che non smetteremo mai di benedire.

Per dare un’idea di che tipo di posto fosse questo minusco villagigo della Bolivia nord-occidentale, basterà citare il primo pomeriggio che abbiamo trascorso con Milton. Arrivati di mattina presto con un minivan da La Paz, abbiamo chiesto al nostro amico di fare una ‘passeggiata’ nei dintorni per approfittare un po’ della bella giornata. Così Milton si è dotato di due minuscoli ami ricurvi e ci ha portato in piena campagna, dove abbiamo camminato fino ad imbatterci in un piccolo lago. Nel laghetto c'erano delle grosse trote sguazzanti, e l’amo serviva per pescarle; a quanto pare però Milton, come e più di Tommi, non sapeva nulla di pesca alle trote, così la nostra comitiva ha dovuto appoggiarsi una volta di più alla sagacia di Angie per tornare a casa vittoriosi. In effetti, mentre Milton fantasticava di svuotare il laghetto con una bomba all'ossigeno che ci avrebbe permesso di raccogliere in tutta comodità i pesci spiaggiati sul fondo (!!!) e Tommaso aveva rinunciato, dopo una serie di patetici tentativi infruttuosi, alla possibilità di pescare alcunché al di fuori di vecchie suole di scarpa, Angelina si é prodigata nel creare un lungo filo da attaccare all'amo con i suoi lacci delle scarpe, e magicamente ha cominciato a estrarre pescioni giganteschi dall'acqua... Cielo, grazie tante per le Donne!


Still-in-life with mighty glacier, sorrounding of Achacachi - click on the picture to see the entire photogallery

Tornati ad Achacachi siamo finalmente arrivati a casa di Milton.
Suo padre gestisce una sorta di complesso polifunzionale che comprende un piccolo alimentari, dei biliardini, due o tre sale per giocare a pallavolo e… alcune saune!
Eppure Milton ci ha spiegato come lui sconti amaramente questa condizione di relativa agiatezza dipingendoci un quadro familiare a dir poco desolante. Questo blog non è il luogo adatto per analisi approfondite sui legami tra colonizzazione militare e culturale e attitudine degli ex popoli schiavi al consumismo omologato. Ci limiteremo dunque a descrivervi quello che il nostro amico ci ha raccontato. I suoi sono entrambi commercianti. Il padre gestisce, per l'appunto, la struttura ricreativa dov'è stata ricavata anche la casa di famiglia. La madre invece vende pesce fritto al mercato. A quanto pare lavorano sempre, sempre, sempre. Durante la permanenza a casa loro li abbiamo incrociati a stento, poiché si alzavano all'alba - la madre per avviarsi al mercato, il padre per accogliere i lavoratori che si concedevano una doccia prima di andare al lavoro - ed andavano a letto prestissimo. Milton ci ha raccontato la scena tristissima del weekend tipo passato 'in famiglia' ad Achacachi, con lui che cerca di ritagliare dei piccoli momenti collettivi di condivisione e discussione e i parenti che svicolano o protestano, quasi non fossero più abituati alle interazioni umane fuori dal lavoro. Persino a Natale, il risultato massimo che il nostro amico possa ottenere è quello di cucinare tutto solo un pasto pressoché ordinario, che la famiglia consuma sbrigativamente insieme prima di tornare, un'ora dopo, alle proprie occupazioni mercantili.

La storia che ci ha raccontato Milton ci ha messo parecchia tristezza, specie pensando a quante volte, a casa nostra, sono i genitori a cercarci e quelli a divincolarsi siamo proprio noi. Ad ogni modo è stato il nostro amico stesso a spezzare il clima di malinconia con uno dei suoi grandi sorrisi sdentati. Non è uomo da lasciarsi abbattere lui, anzi sembra provare un'incrollabile fede negli esseri umani che lascia stupefatti e ammirati anche noi.

Così, mentre le trote arrostivano sul fuoco e noi ci producevamo nella preparazione della solita pasta di ringraziamento - il miglior biglietto da visita in Sudamerica! - il nostro amico ci faceva ascoltare tutta la musica francese ed italiana che possedeva, come tributo a noi e simbolo della sua generosa ospitalità. Piu' tardi, durante la straordinaria sauna che ci siamo goduti in quel luogo a dir poco strampalato, Milton ci ha raccontato dei suoi progetti e di come sogna di creare una sua ONG indipendente per dare una mano ai ragazzi poveri di La Paz e favorire il loro accesso all'istruzione.  Ci ha anche raccontato la storia toccante, orribile, dolcissima del ragazzo-garzone che aiuta la famiglia di Milton nelle faccende domestiche, e che noi abbiamo avuto l'occasione di incontrare piu' volte durante il nostro soggiorno ad Achacachi. 

Timidissimo, occhi intelligenti che pero' si levavano raramente da terra, questo ragazzo non sa dov'é nato, perché quand'era ancora un bimbo fu rapito da una sorta di 'bracconiere di esseri umani' che lo porto' nell'Amazzonia boliviana per farlo lavorare come schiavo. Una vita intera passata da oppresso, senza un salario, trattato come un cane. A un certo punto la fuga con mezzi di fortuna, via dalla Selva umida e impenetrabile verso la luce dell'Altiplano, l'acqua chiara del Titicaca, i contorni sicuri e decisi delle Ande. Il ragazzo é arrivato qualche anno fa ad Achacachi, aveva circa 16 anni, non parlava una parola di quechua o aymara - solo dialetti indigeni della Selva, spagnolo nemmeno a parlarne - ed era vestito di stracci. La famiglia di Milton l'ha accolto in casa.. non proprio come un figlio eh, ma insomma gli ha dato un tetto e dei vestiti e la possibilità di cambiare vita. Adesso il ragazzo, circa vent'anni e una dignità personale ancora da costruire e riconquistare, ci guarda di sottecchi e capiamo benissimo che vorrebbe farci mille domande, carpire i nostri segreti, comprendere com'é fatta un'altra porzione di mondo, una qualsiasi, diversa dalla gabbia esistenziale in cui é cresciuto lui. Ora corre via e torna con un diploma di scuola, il prossimo anno comincerà il liceo e ci guarda con quello sguardo orgoglioso e triste di un veterano che mostra le sue ferite di guerra. La famiglia di Milton non ha voluto che gli scattassimo delle fotografie, e Il suo nome é già svanito nella memoria, ma il viso di questo ragazzo e le poche parole scambiate ci resteranno nel cuore.

Il giorno dopo il nostro amico ci porta a fare due visite pazzesche. La mattina é domenica e andiamo a visitare il mercato cittadino. Milton ci tiene molto a impressionarci positivamente e lasciarci un bel ricordo di Achacachi. A quanto pare, recentemente la cittadina é stata teatro di un fatto di sangue piuttosto agghiacciante: durante una festa cittadina che aveva riversato per le strade tutti gli abitanti, dei ladri venuti da fuori si erano introdotti nelle abitazioni della gente e avevano rubato gioielli e altri piccoli averi. Qualcuno li aveva scoperti in flagrante, la cittadinanza era stata chiamata a raccolta, l'alcool aveva eccitato gli spiriti e due persone erano state bruciate a morte nello stadio della cittadina. Da allora la cittadina é diventata uno dei buchi neri di Bolivia, uno di quei posti additati da stampa e boliviani stessi come luoghi da evitare, quando invece riflessioni più serie e meno sensazionalistiche avrebbero dovuto essere fatte sul sentimento di abbandono che i cittadini della provincia sentono nei confronti delle autorità, che non li tutela da lestofanti e prepotenti.

The World-known Sunday Market in Achacachi... ehm, whatever - click on the picture to see the entire photogallery

Ad ogni modo, se lo scopo di Milton era quello di riabilitare la sua cittadina d'origine agli occhi del mondo facendoci passare un bel weekend..beh, ci é perfettamente riuscito!!
Tutto il villaggio sembrava estasiato dal passaggio di noi due gringos in compagnia del loro concittadino, ci fermavano per una foto, un commento sulla bionditudine di Angelina, una strizzata d'occhi da uomini con Tommaso, e in generale numerosi gesti di ammirazione verso Milton, che era riuscito ad attirare due stranieri in visita nella loro cittadina dimenticata dagli uomini. Un po' imbarazzati, abbiamo cercato di essere gentili con tutti, e abbiamo comprato frutti e legumi dalle campesinas che lavoravano per terra per portarli a casa e cucinare un buon pranzo.

Nel pomeriggio, quel pazzo di Milton ci ha portato a fare un'escursione che si é rivelata essere splendida, ma che se avessimo fatto senza il nostro amico come guida ci sarebbe piuttosto sembrata spaventosa; specialmente per come si é conclusa!

L'avventura comincia con un taxi che ci lascia nelle vicinanza del maestoso cerro Kakañapi (4300 bianchi metri di altezza) che contempliamo dal basso per un buon quarto d'ora. Poi iniziamo ad addentrarci nella campagna, circondati solo da vacche, piantagioni di quinoa e agricoltori forgiati nel freddo sudore andino. Mano a mano la strada sale, e ci rendiamo conto che Milton ci vuole far scalare una montagna che, se non é alta come quella che avevamo ammirato all'arrivo, costituisce comunque un'impresa non da poco. Mentre ci avventuriamo verso l'alto passiamo per un paesino aggrappato alla roccia, dove la gente é in festa. Il nostro amico ci spiega che la gente del posto forma un Ayllu, una comunità cittadina basata su vincoli familiari allargati, dove terreni e mezzi di produzioni sono messi in comune. Facciamo appena in tempo a dire a Milton che conosciamo bene il concetto di ayllu, e che il nostro blog si chiama cosi' proprio perché si tratta di un esperimento sociale che ci interessa enormemente, che lui ci grida di affrettarci perché la notte cala in fretta sulle Ande, e ritrovarsi di notte in cima alla montagna sarebbe no tanto divertido, non molto simpatico!

Cosi' continuamo la marcia, con la montagna che si fa poco a poco più silente e scura. Arriviamo in cima che é comunque già buio pesto e fa un freddo da pazzi, ma la vera cosa pazzesca che ci si para davanti é il paesaggio all'orizzone. Milton ci ha condotti attraverso le montagne fino al limite occidentale del lago Titicaca, che si staglia immenso e velato di nubi sotto di noi. Giu' a valle c'é ancora la luce, e ci godiamo qualche minuto di pace estatica e contemplativa di questo mondo d'acqua e di vento che giace a quattromila metri d'altezza tra Bolivia ed Ecuador. E' meravigliso ed effimero, e poco dopo veniamo riportati alla realtà dalle tenebre che non ci permettono più di vedere né il lago né, più modestamente, le punte delle scarpe davanti a noi.

These sheeps are made for walking, Kakañapi, Bolivia - click on the picture to see the entire photogallery

Cominciamo a preoccuparci, per fortuna Milton é con noi, e da montanaro consumato com'é ci guida nel nulla con sicurezza. Noi stentiamo un po', la discesa é lunga e un paio di volte rischiamo di finire in dei crepacci, o almeno di mettere i piedi in zone sconnesse del territorio e di rovinare il viaggio spaccandoci le caviglie. Tutto fila via incredibilmente liscio e siamo ormai in dirittura d'arrivo quando anche Milton sembra perdere il senso del'orientamento. Vaghiamo raminghi per dei minuti che ci paiono lunghissimi, le mani di Angie ormai dure come bastoncini di merluzzo congelati, lo sguardo preoccupato di Milton come il peggior spauracchio per un Tommaso intimorito. Ed infatti, ovviamente, ecco materializzarsi l'imprevisto più prevedibile: durante la discesa entriamo inopinatamente in quella che scopriamo subito essere la proprietà privata di una campesina assai battagliera. La signora esce dalla sua capanna armata di bastone, incurante del freddo e delle tenebre che avvolgono ogni cosa, e ci rivolge quelle che ci sembrano essere delle espressioni poco lusinghiere in quechua. Milton pare preoccupato, quindi capiamo che in effetti la signora ci ha preso per dei ladri o dei banditi bramosi di deturpare la sua proprietà. Sono momenti paradossali: il gelo ustionante sulla faccia, il bastone agitato dalle mani secolari della contadina, lo scambio di battute nella lingua perduta degli Inca, per ultimo anche il cane di casa che esce ringhiando dalla propria cuccia. Sembra un film di Buñuel, e non sappiamo proprio quale altro colpo di scena aspettarci. L'eco della sinistra fama di Achacachi si riaffaccia alle nostre orecchie, non ci resta che sperare che la campesina non decida di ergersi a giustiziera della notte e ottenere soddisfazione sommaria all'offesa ricevuta. Fatto sta che a un certo punto Milton e la signora trovano una qualche salvifica intesa verbale, e al prezzo di ampi cenni di scuse e salamelecchi veniamo lasciati liberi di proseguire. Inutile dire che bruciamo la terra sterrata che ci manca fino a raggiungere nuovamente il piccolo villaggio di Japuraya dal quale eravamo partiti, e nella notte ormai profonda ci accaparriamo un taxi e facciamo ritorno a casa di Milton.

Che avventura, che paesaggi, che freddo.. e che fifa! Eppure siamo ancora qui, a sfregarci le mani sul fuoco per accertarci che funzionino ancora e a guardarci silenzioni negli occhi per dirci quanto siamo felici di vivere così il nostro viaggio.

giovedì 17 ottobre 2013

High High High


Siamo infine arrivati a La Paz!

Pur non essendo ufficialmente la capitale della Bolivia, come avevamo scoperto quando ci siamo recati a Sucre, La Paz è certamente il centro vitale del Paese andino. Qui si ammassa la popolazione ritiratasi dalle montagne o dalla foresta amazzonica, inseguendo la chimera di un'occupazione dignitosa. Qui si sono concentrati negli anni le più virulente ribellioni sociali dei campesinos indigenas contro i politicanti bianchi e esterofili che hanno venduto poco a poco le risorse di Bolivia al capitale straniero. Qui, soprattutto, l'etnia predominante tra gli autoctoni è da sempre quella aymara su quella quechua, e si distingue per quel carattere indomito, aggressivo, fiero ed istintuale rintracciabile in numerosi degli avvenimenti storici di cui il popolo di questa grande città è stato protagonista.

Il nostro arrivo a La Paz è stato allo stesso tempo terribile e spettacolare. Il paesaggio che ci ha accolto alle cinque del mattino, con il gelo dei 4000 metri di altitudine della città che si faceva sentire attraverso i finestrini del nostro autobus notturno; il sole che si levava lentamente sulle baracche del quartiere popolare di El Alto, dove i commercianti intirizziti cominciavano una nuova giornata di fatica e orgoglio; il gigantesco ed innevato vulcano Illimani che con i suoi 6450 metri si stagliava come il vero guardiano della città hanno rappresentato delle visioni talmente diverse da quelle cui siamo abituati in Europa da mozzarci letteralmente il fiato.
Purtroppo il freddo ed il cambio repentino di altitudine - siamo infatti passati in poche ore dai 2500 m di Cochabamba alle altezze vertiginose della città della Pace  - hanno avuto un impatto severo sui nostri fisici pur abituati, e cosi' abbiamo passato i primi 3 giorni di permanenza in città chiusi in un ostello del centro, spossati ed infebbrati.

Quando siamo riemersi dal torpore ci siamo rimboccati la maniche e abbiamo percorso in lungo e in largo il centro di La Paz - operazione piuttosto faticosa perché la città é letteralmente abbarbicata sulle pendici delle Ande e i dislivelli tra le varie zone e quartieri sono piuttosto impressionanti.. per non parlare della difficoltà che si fa a respirare in condizioni di aria cosi' rarefatta !
La città possiede molti musei interessanti, almeno una chiesa di straordinaria bellezza - il convento di San Francesco situato sulla piazza principale, che stravince il confronto con la Cattedrale - e diversi edifici coloniali dall'architettura austera. Sono stati pero' piuttosto alcuni dettagli della vita quotidiana di La Paz che ci hanno affascinato e sorpreso durante il nostro soggiorno.

Alcuni film consigliatici da amici couchsurfers in loco ci hanno permesso di scoprire alcuni aspetti della vita della città che poi abbiamo puntualmente ritrovato nei vicoli e nelle piazze. Tre pellicole su tutte: "Our brand is crisis" è un fantastico documentario vincitore di premi internazionali (disponibile qui in streaming)  che narra come un ricco uomo d'affari americano che aveva già ricoperto in modo fallimentare la carica di Presidente della Bolivia all'inizio degli anni '90 sia riuscito a farsi rieleggere presidente nel 2002 grazie a una campagna di manipolazione mediatica orchestrata dai suoi esperti di marketing statunitensi ed israeliani. Il film si apre e si chiude con gli scontri urbani nelle vie centrali di  che costarono la vita a decine di manifestanti, ma portarono infine alle dimissioni del presidente-fantoccio Goni Sanchez.

Altro film interessante per carpire un aspetto peculiare della vita quotidiana di La Paz è "Pacha", che tratta della diffusissima figura del lustrabotas, o pulitore di scarpe. I lustrabotas sono comuni in tutto il Sudamerica andino, ma a La Paz il mestiere é declinato con uno spirito particolare. Qui i lustrascarpe indossano un curioso copricapo che nasconde loro tutto il viso, lasciando scoperti solo gli occhi. Il significato di quest'abbigliamento é variamente interpretato secondo la leggenda a quale si sia disposti a credere. C'è chi dice che i lustrabotas si nascondano perché l'onta di essere riconosciuti mentre si è intenti a praticare un mestiere tanto umile é impossibile da accettare per i giovani aymara; chi afferma invece che i lustrascarpe sono in gran parte ex-delinquenti che cercano di rifarsi una vita senza essere identificati per ciò che sono stati in passato; i meno romantici sostengono invece che il copricapo serva semplicemente per proteggere chi lo indossa dal sole accecante e dall'inquinamento cittadino. Quale che sia l'origine dell'usanza, il film segue le disavventure di un piccolo lustrascarpe cui vengono rubati gli attrezzi del mestiere, e con essi qualsiasi speranza di sopravvivere. Si ritroverà al centro di importanti rivolte sociali e riscoprirà l'antica saggezza mistica andina - un film da vedere anche perché una parte è ambientata nel fantastico Deserto del Sale di Uyuni !


A lustrabota at work on the streets of La Paz - click on the picture to see the entire photogallery

La terza pellicola é il "Cimitero degli Elefanti" (disponibile qui in streaming), che tratta alcune delle piaghe sociali più terribili per il popolo boliviano e paceño in particolare: l'alcolismo, la solitudine e la criminalità come unica via effimera e temporanea per sbarcare il lunario. Il titolo del film si riferisce ad un fatto di cronaca uscito sui giornali di La Paz qualche anno fa: la polizia aveva scoperto e smantellato almeno 4 'cimiteri degli elefanti', ovvero dei tetri albergacci illegali dove desperados, falliti e malavitosi si rinchiudevano in volontario esilio con una scorta infinita di tragos, bevande a forte gradazione alcolica, che trangugiavano per dimenticare la propria miserabile esistenza fino all'incoscienza e spesso alla morte. Il "Cimitero degli Elefanti" è interessante anche per la descrizione del mondo criminale boliviano e paceno in particolare, che comprende rapine ai tassisti durante le corse notturne - è capitato persino a noi che alcuni guidatori si rifiutassero di portarci in alcuni quartieri per paura di essere assaliti! -, sequestri lampo di persone a scopo di estorsione e, soprattutto, la folle usanza di procurare dei "sacrifici umani" a novelli imprenditori superstizioni. Quest'usanza, di cui avevamo già sentito parlare al Mercato delle Streghe di Cochabamba, trae le sue origini da credenze preincaiche che spingevano a sacrificare un animale ed interrarlo nelle fondamenta dell'esercizio commerciale che si intendeva aprire come talismano di buona sorte. Ovviamente, più l'animale era importante e caro - come ad esempio il ricercatissimo feto di lama - più il beneficio sarebbe stato potente. Così, in tempi recenti si è sviluppata una tetra caccia al sacrificio umano, con criminali senza scrupoli che setacciano le periferie della città in cerca di poveri diavoli da ridurre all'incoscienza con l'alcool, per poterli poi interrare ancora vivi nel cemento delle fondamenta degli edifici. Tutto ciò sembra impossibile ma è tragicamente vero, e nel film è raccontato accorata precisione, senza tuttavia cadute nella pornografia della violenza.

Al di là della dura realtà che abbiamo appreso nei film ed in parte ritrovato in città, il nostro soggiorno a La Paz è stato marchiato da altri due eventi cui abbiamo presenziato in città. Il primo è stato la Giornata del Mare, un tipico esempio del surrealismo dei boliviani e del loro ostinato orgoglio che li porta spesso a superare ogni difficoltà ed alcune volte, al contrario, semplicemente a rendersi ridicoli. 
Un bel giorno di sole stavamo camminando per la Plaza Central di La Paz quando veniamo attirati dalla musica di una banda militare e ci accorgiamo della presenza di alcuni stand informativi che decidiamo di visitare. Ci rendiamo allora conto che la manifestazione ha il patrocinio dello Stato e prevede un pomposo spiegamento delle forze della Marina Militare, che vestendo le uniformi migliori narrano ai passanti le glorie passate e il grado di sviluppo tecnologico dei nuovi sottomarini dell'Esercito. Tutto ciò ci avrebbe lasciato completamente indifferenti, considerata la nostra comune avversione per i militari e le forze dell'ordine costituito e per tutte le manifestazioni a queste collegate, se non fosse per un piccolo dettaglio che ha colpito la nostra attenzione... la Bolivia non si affaccia sul mare!!
Quello dell'accesso al mare è un tema annoso, di cui ci siamo trovati a discutere tante volte nel corso del nostro soggiorno nel paese con gente locale, altri sudamericani e viaggiatori europei come noi. La questione è legata a un attacco a sorpresa che il Cile portò alla Bolivia nel 1879 privandola di fatto di quella striscia di terra attorno ad Antofagasta che permetteva uno sbocco sul Pacifico allo stato andino. La privazione del mare con il suo significato commerciale e simbolico, insieme all' "infamia" dell'attacco a sorpresa non avvenuto all'interno di una guerra dichiarata, più l'attuale conflitto politico che oppone la Bolivia socialista e populista di Morales al Cile liberista e filoamericano di Pineda hanno fatto degenerare il contenzioso ai grotteschi livelli odierni. Così, i tazebao sulla piazza incitavano all'odio nei confronti del nemico cileno e ricordavano come il presidente boliviano abbia inoltrato un ricorso al Tribunale Internazionale dell'Aia - addirittura !! - per ottenere d'ufficio la restituzione del mare. Per saperne di più, abbiamo posto una domanda semplice ai marinai in divisa che stazionavano serissimi sulla piazza, ovvero abbiamo chiesto loro come facessero i soldati boliviani  per compiere le esercitazioni militari necessarie alla formazione delle reclute e al testaggio dei nuovi mezzi. Questa domanda ci è quasi costata l'arresto! I marinai ci hanno preso per sobillatori e trattenuto a lungo per verificare le nostre intenzioni. Infine, appurato che la nostra era pura curiosità, ci hanno risposto, duri e impassibili: "Ci immergiamo nel lago Titicaca"... !

L'altro episodio particolare cui abbiamo avuto modo di assistere a La Paz è stata la partita di calcio tra Bolivia e Argentina valevole per le qualificazioni al Campionato Mondiale di Brasile 2014. E' stata veramente un'esperienza fantastica, per noi e per tutti i tifosi accorsi allo stadio Hernando Siles quel giorno. In effetti la Bolivia, ultimissima in classifica, non aveva più alcuna possibilità di qualificarsi, ma la partita era l'occasione per vedere all'opera dal vivo Lionel Messi, considerato da tutti i boliviani alla stregua della reincarnazione dell'Inca Parachutec. Inoltre l'Argentina ha un'umiliante tradizione negativa negli scontri giocati in altitudine a La Paz, tanto che l'incontro precedente era terminato con un roboante 4-0 per i biancoverdi padroni di casa.
La partita è stata piuttosto bruttina, con la Bolivia tecnicamente incapace di fare gioco e l'albiceleste sulle gambe e senza fiato per le avverse condizioni ambientali. Messi ha offerto una prestazione insulsa, passando la metà del tempo piegato sulle ginocchia a cercare di riprendere fiato e sbagliando un facilissimo gol da solo di fronte alla porta. Nell'intervista a fine partita confesserà di aver vomitato nell'intervallo per il soroche, il mal d'altitudine !
Ma ben più dell'1-1 finale prodotto da due colpacci di testa, assistere alla partita è stata l'occasione per ritrovarsi in un contesto molto particolare, con lo scenario delle Ande tutto intorno allo stadio e la colorata coreografia dei correttissimi tifosi boliviani sugli spalti. Veramente un bel pomeriggio di sport e folklore!

Non potevamo lasciare La Paz senza prima visitare la sua anima più ribelle e proletaria, ovvero il borgo periferico di El Alto ormai estesosi a vera e propria città per il vertiginoso aumento demografico in corso. Con i suoi 4800 metri di altitudine El Alto si staglia fieramente su La Paz e si arrampica con tenacia sui picchi andini circostanti. Qui la popolazione è quasi integralmente di origini indigene e le abitazioni sono state edificate in pietra solo a partire dagli ultimi decenni. Qui i prezzi sono inferiori della metà rispetto a quelli di La Paz - il che significa letteralmente che la vita non costa nulla. Qui, la domenica si svolge il più grande mercato all'aria aperta dell'America latina, quando la popolazione indigena della regione invade tutte le strade polverose di El Alto per dar vita a bancarelle improvvisate che vendono ogni genere di ammennicolo e vivanda. Siamo restati dalla mattina al pomeriggio nel mercato, affascinati dalle compravendite di lacci, polli, motori meccanici, fascicoli sulla Pentecoste, rimedi contro l'impotenza, leggins fluorescenti, gel per capelli, succhi di frutti impossibili, anelli fatti con diamanti delle miniere e pettini di peli umani!

a luchadora campesina is getting beaten up by some wannabe-Dalmatian - click on the picture to see the entire photogallery

Quando già calava la sera, ci siamo imbattuti in un tendonep/palazzetto dello sport che recitava all'esterno "Oggi grande spettacolo internazionale di wrestling tra campesinas - NON MANCATE !" Di fronte a tale entusiastico invito non potevamo tirarci indietro, così siamo entrati e abbiamo assistito allo spettacolo più delirante, razzista, volgare e divertente del nostro viaggio. Essenzialmente i luchadores boliviani, come tutti i wrestler, sono dei pagliacci muscolosi che si prendono per scherzo a sganassoni aizzando la folla a schernirli o parteggiare per loro. Nel caso delle campesinas lottatrici, i muscoli sono sostituiti dagli abiti tradizionali delle donne boliviane, con effetti se possibile ancora più comici e parossistici. Inoltre, per non farsi mancare niente, lo spettacolo comprendeva anche un'esibizione di un nano truccato da pierrot che si scontrava contro un gigante che ne disponeva a suo piacimento, facendo spruzzare gettiti di succo di pomodoro dal viso del malcapitato avversario. Tutto ciò sarebbe stato semplicemente divertente, se non fosse stato per il pubblico che assisteva con noi all'evento e che si è dimostrato a dir poco inadeguato.  Tutti gli stranieri presenti - compresi noi - erano infatti seduti nelle prime file, secondo una gerarchia economica e razziale che deve far amaramente riflettere sui lasciti anche inconsapevoli della mentalità coloniale, e potevano godere dello spettacolo da vicino. Se da un lato l'interazione tra pubblico e attori/atleti è una parte imprescindibile dello spettacolo, dall'altro abbiamo dovuto costatare l'inciviltà di alcuni gruppi di turisti israeliani che si sono messi letteralmente a tu per tu con i wrestler, lanciando loro bottiglie d'acqua e vivande, insultandoli in inglese ed ebraico ed irridendo il nano secondo uno spartito che ci ha ricordato più il pubblico di quei circhi di freaks del XIX° secolo che una platea di ragazzi viaggiatori nel mondo globalizzato di oggi. Questi individui hanno esasperato a tal punto l'atmosfera che i wrestler stessi si sono dovuti fermare e la sicurezza ha scortato fuori alcuni degli scalmanati per permettere la conclusione della lotta.
Divertiti dallo spettacolo e dall'autoironia dei suoi protagonisti ma un po' delusi e interdetti dal comportamento degli spettatori abbiamo così concluso la nostra giornata a El Alto, tornando di notte a La Paz per partire di nuovo verso altre avventure...

domenica 15 settembre 2013

A Long Long Time Ago


Dalla città di Cochabamba abbiamo deciso di spostarci nuovamente verso sud per andare a visitare il Parco Nazionale di Torotoro, che si trova nella parte settentrionale del distretto di Potosi - dove eravamo già stati.
Con un viaggio di 6 ore su strade molto malmesse e burroni mozzafiato giungiamo quindi al minuscolo villaggio di Torotoro, che ci accoglie con un singolare scenario. Sulla piazzetta principale non svetta infatti come d'abitudine una chiesa coloniale, ma bensì un kitchissimo modello a grandezza naturale di un Carnosauro infuriato.
Il Parque de Torotoro si propone infatti come un'area protetta dove il tempo si è fermato più di 200 milioni di anni fa. Oltre alla straordinaria ricchezza di piante e animali scomparsi altrove, sono le tracce di numerosi tra i dinosauri che dominavano la Terra a quell'epoca che rendono quest'area una perla unica e pressoché sconosciuta al mondo. Nei due giorni (e tre notti) che abbiamo passato nel parco abbiamo avuto la fortuna di visitare dei paesaggi naturali incredibili e di farci un'idea su com'era la vita nel mondo milioni di anni prima che l'uomo vi mettesse piede - ovvero 65 milioni di anni fa.

In compagnia di Carmel, un simpatico ragazzo israeliano che si è rivelato una vera miniera di informazioni sui dinosauri, abbiamo compiuto due splendide escursioni di una giornata sempre a partire dal piccolo villaggio di Torotoro. La prima è stata principalmente incentrata sulla ricerca e l'interpretazione delle orme di dinosauri sparse in varie zone del parco. Sinceramente, per noi che siamo stati svezzati da Piedino e la Ricerca della Valle Incantata (Le petit dinosaure et la vallée des merveilles) e poi siamo cresciuti nel mito di Jurassic Park quest'è esperienza è stata indimenticabile !
Le orme si sono conservate attraverso i millenni perché la zona dove sorge oggi il Parco di Torotoro era in passato un'area paludosa, dove i maestosi rettili lasciavano delle impronte che poi si solidificavano nel fango conservando le tracce del passaggio degli animali. Successivamente, i cambiamenti climatici hanno trasformato il fango in calcare grigio che ha permesso la solidificazione delle orme e la sua conservazione fino ai giorni nostri.


Velociraptor footprint at Parque Nacional de Torotoro - click on the picture to see the entire photogallrey


Ci che ci ha colpito in particolare, oltre allo straordinario stato di preservazione delle impronte, è stata la vivida immagine dell'ecosistema dei dinosauri che ha preso forma nelle nostre teste durante la visita. I film holliwoodiani rappresentano spesso i dinosauri carnivori come dei mostri terrorizzanti e solitari i cui unici contatti con altri animali avvenivano nei momenti di caccia, quando tendevano dei veri e propri agguati alle loro vittime. La verità è molto più simile a ciò che accade nelle savane odierne, dove leoni e gazzelle si trovano spesso a bere gli uni di fronte agli altri senza grossi problemi, e dove i predatori sono temuti solo quando si trovano alla ricerca disperata di cibo. Così noi stessi abbiamo potuto constatare la presenza di branchi di velociraptor, distinguibili dalle impronte che mostrano due dita più un artiglio ricurvo, a pochi metri da quelli di grossi dinosauri erbivori, riconoscibili dalle impronte molto distanziate tra loro e molto profonde nel suolo.

Per concludere la camminata naturalistica siamo andati a visitare il canyon di Huacasenqua, profondo circa 150m. Una volta scesi fino al rio Torotoro, ci siamo ritrovati in uno scenario meraviglioso, dove alcune pietre piatte ci hanno permesso di smettere gli abiti da trekking e metterci a prendere il sole in costume. In più, numerose piccole cascate punteggiavano le pareti del canyon scaraventando l'acqua sul fondo del canyon e creando dei meravigliosi giochi di luci grazie ai riflessi del sole, della vegetazione e della pietra sull'acqua.. un verso Paradiso terrestre!

La seconda escursione ci ha portato invece fin dentro le viscere della terra, nella grotta di Umalajanta. Per raggiungere la caverna abbiamo attraversato una grande porzione del Parco senza incontrare pressoché nessun altro individuo, eccezion fatta per qualche campesina che portava gli animali al pascolo.
La grotta è la più profonda di Bolivia, con i suoi 4600m di profondità, e costituisce una vera e propria sfida per chi decide di avverturarvisi. Infatti gli scavi, cominciati nel 1956, hanno reso l'accesso possibile ma non certo agevole ai visitatori. Oltre all'obbligo di indossare casco e lampada a metano, infatti, al visitante è richiesto uno sforzo fisico abbastanza estremo. Per entrare bisogna infatti letteralmente strisciare sotto le mura della caverna, in condizioni di spazio ridottissimo e ossigeno limitato. Non è certo un'esperienza adatta ai claustrofobici o ai turisti sovrappeso!
Lo sforzo richiesto per entrare nella grotta è stato però ampiamente ripagato dalla bellezza del paesaggio all'interno. Stalattiti, stalagmiti, ruscelli d'acqua verde e blu e pipistrelli ciechi ci hanno fatto scordare il panorama andino che ci attendeva all'esterno e proiettato per qualche ora in una dimensione umida e misteriosa.

Dopo un'ultima notte spesa nel paesino di Torotoro con Carmel, siamo ritornati a Cochabamba dove abbiamo detto infine arrivederci al nostro caro amico e ospite Fernando, e abbiamo preso un autobus notturno a lunga percorrenza con direzione La Paz, il cuore innevato di Bolivia.

venerdì 13 settembre 2013

There's Always Room on the Broom


Lasciateci alle spalle gli abissi infernali del Cerro Rico e il clima rigido e spietato di Potosì, ci siamo spostati verso nord raggiungendo Cochabamba, città situata quasi al centro geometrico della Bolivia e diversissima per tanti aspetti dalla capitale da cui provenivamo.

Cocha è famosa tra i boliviani per il suo clima tiepido e soleggiato, ben diverso da quello che caratterizza quasi tutto il resto dello Stato andino. I cittadini della città se ne vantano, citando il proverbio "las golondrinas nunca migran de Cochabamba", ovvero le rondini non lasciano mai Cochabamba. Allo stesso tempo, i boliviani proveniente dal resto della nazione replicano perfidamente che il clima è l'unica cosa bella della città, visto che non vi è un singolo edificio che valga la pena visitare!!

Da parte nostra, pur riconoscendo che la città non offre certo vedute o monumenti indimenticabili, ci siamo fermati quasi 10 giorni a Cochabamba.
Un po' perché qui abbiamo trovato un ospite CouchSurfer  e-c-c-e-z-i-o-n-a-l-e, Fernando, che ci ha trattato veramente come gente di famiglia, e ci ha convinto a restare nella sua bellissima casa ben più dei due-tre giorni che ci eravamo prefissi.
Un po' perché Cochabamba è una metropoli pulsante e multiforme, una delle città più vive di Bolivia, con le tante attività culturali, i suoi mercati indigeni pieni di oggetti meravigliosi e inenarrabili cianfrusaglie, le ONG attive sulle piazze e nelle strade per creare una coscienza critica nelle persone, gli artisti che bloccano il traffico e spargono un po' di colore tra i palazzi seri delle imprese e delle istituzioni..

Il meglio della città l'abbiamo scoperto grazie a Fernando, il nostro ospite boliviano trapiantato da tanti anni a Washington, che appena può se ne scappa da Gringolandia - gli Stati Uniti - e torna in Bolivia a cercare di scoprire il più possibile del meraviglioso patrimonio culturale e naturalistico del suo paese.
Con lui siamo stati ad uno strampalato e fantastico concerto di musica andina psichedelica, che univa alle sonorità indigene delle chiare influenze dei Pink Floyd e di Eric Clapton. Quella serata in un antico teatro coloniale ad ascoltare i los Wari strimpellare il charango e la batteria elettrica resterà uno dei ricordi più affascinanti del nostro soggiorno a Cocha!

Con Fernando siamo andati anche al Mercado central, uno dei più grandi ed autentici dell'America latina, dove il nostro amico ci ha insegnato il secolare rituale della yapita, un altro esempio di quell'intricato meticciato d'identità che contraddistingue la Bolivia. 'Yapa' è una parola quechua che significa 'aggiunta', e che nella lingua degli Inca indicava l'usanza di concludere la negoziazione di un affare chiedendo al proprietario della merce che si stava per acquistare un 'surplus' del prodotto a titolo di cortesia. La tradizione si è conservata fino ad oggi, così le campesinas di Cochabamba sigillano i propri accordi ottenendo come yapita due pomodori extra, o una cipolla, o un po' riso in più. Lo spagnolo boliviano ha assimilato il termine e il concetto a tal punto che molti tra i giovani non ne conoscono nemmeno più l'etimologia né la storia che vi è dietro.


The Witches' Market in Cochabamba - click on the picture to see the entire photogallery

Il Mercado central è interessante soprattutto per la grande zona destinata ai prodotti esoterici, chiamata mercato de las Brujas, ovvero delle Streghe. Qui si compra ogni sorta di pozione, intruglio, erba medica, malocchio verbale o panacea fisica e spirituale. Ogni prodotto cura un malessere diverso, dalla stanchezza fisica al mar d'amore, dall'impotenza ai rovesci lavorativi. I venditori di questa zona, però, non sono semplici commercianti, ma si considero piuttosto veri e propri curanderos, guaritori, così che non amano farsi fotografare o spiegare nei dettagli ai curiosi le virtù di ogni medicamento. Ci pensa Fernando allora a spiegarci ciò che non riusciamo a capire da soli. I mucchietti di foglie e piume che vediamo mantenuti in bilico con deferenza sono le offerte che i boliviani offrono alla Pachamama e agli spiriti della Fortuna e della Famiglia quando cercano benevolenza e buona sorte. 
Ma sono degli strani animali imbalsamati, che quasi sembrano finti nelle loro pose tristi ed avvizzite, che ci lasciano interdetti ed affascinati. Si tratta di feti di lama, che secondo la tradizione devono essere interrati sotto le fondamenta di una nuova casa o dell'impresa che si vuole aprire per far capire agli spiriti maligni che devono girare a largo. Al di là della facile ripulsa del visitatore occidentale moralista, anche applicando tutti i filtri culturali verso un'usanza che non ci appartiene e che non possiamo giudicare resta la forte impressione lasciata da questi piccoli cadaveri scheletrici dal collo smisurato e le orbite vuote. Per non parlare del grande rammarico provocato dal dato che i lama stanno ormai scomparendo dalle Ande per la caccia indiscriminata di cui sono vittime anche a scopo cerimoniale.

Durante il nostro soggiorno a Cocha, Fernando ci ha consigliato due paesini sperduti dell'altipiano centrale boliviano che secondo lui meritavano una visita in giornata partendo dalla città. A dirla tutta, forse il nostro amico si è fatto un po' trascinare dall'entuasiasmo quando ci ha spinto a recarci a Totora. Si tratta in effetti di un bel paesino coloniale che ha sofferto un irreparabile abbandono a partire del 1900. Un problema per l'economia del posto, ma una fortuna per i visitatori che possono apprezzare un villaggio arrivato direttamente dal 18esimo secolo, senza nessuno sconvolgimento edilizio portato dall'urbanizzazione e dal cambiamento del paesaggio. Tuttavia, le quasi otto ore di pullman (andate e ritorno) su strade per lo più non asfaltate ci sono parse un motivo sufficiente per attenderci qualcosa di più delle romantiche mura diroccate di un villaggio di agricoltori!


A lonely campesina at the Totora main square - clicl on the picture to see the entire photogallery

Ci è rimasto invece più impresso il villaggio di Tarata, che abbiamo visitato sotto l'abile guida di Fernando ed in compagnia di sua cugina Rosa. Anch'essa un villaggio coloniale, anch'essa solitaria e decadente nella sua scrostata bellezza spagnoleggiante, Tarata possiede una bellissima piazza centrale ornata di alberi di palme (a 2500 metri di altitudine!) sulla quale troneggia la massiccia cattedrale neoclassica di San Pedro. Al centro della piazza si erge anche il monumento al charango, il chitarrino a dieci corde che è lo strumento nazionale della Bolivia e che è stato inventato proprio in questa minuscola cittadina durante il 18esimo secolo.

Ma la visita a Tarata è stata soprattutto l'occasione di scoprire il vasto convento francescano che si innalza su un'altura sopra la città, dove un gioviale monaco basco che sembrava Babbo Natale ci ha fatto gli onori di casa portandoci a zonzo per i giardini e le sale. A quanto pare, il monastero fu fondato nel 1792 come base missionaria per i monaci, e nel tempo fu fornito di una biblioteca che conta oggi più di 8000 volumi. La splendida architettura mestiza, i grandi spazi aperti tenuti alla perfezione, l'atmosfera di ordine e laboriosità che si respira tra le mura ha provocato su di noi un effetto piuttosto straniante rispetto all'aria di sonnecchioso abbandono del resto della cittadina.

Certo non potevamo lasciare Tarata senza aver prima visitato ciò che resta della casa dell'antico presidente boliviano Mariano Melgarejo, originario proprio di questo villaggio. L'abitazione è ormai ridotta a un rudere, ma entrarvi dentro è stata l'occasione per apprendere grazie a Fernando la storia di quest'uomo terribile e strampalato.
Melgarejo è il classico esempio di dittatore bifolco, sanguinario e folle che funestò lo stato andino dopo l'indipendenza della Bolivia dalla Spagna. In quell'epoca di vuoti di potere e passioni violente spesso a farla da padroni erano i militari che si accaparravano il potere tramite colpi di Stato e continue prove di crudeltà. Melgarejo fu un perfetto esemplare di uomo di tale fatta, ed è ricordato tra i boliviani per la sua avidità, per l'assoluta ignoranza politica e per il suo alcolismo cronico. Assai peggiori dei suoi difetti personali furono però le decisioni che prese per conto dello Stato. Cedette infatti una gigantesca parte del territorio boliviano orientale - su cui vivevano molte popolazioni indigene - al Brasile per una cifra irrisoria, concesse a svariate imprese cilene di sfruttamento minerario i diritti per l'esportazione e la lavorazione delle materie prime nazionali e soprattutto negò ed abusò dei diritti più elementari delle popolazioni originarie quechua ed aymara rafforzando la dominazione elitaria di bianchi e mestizos.


An ancient colonial building in Tarata - click on the picture to see the entire photogallery

La presidenza di Melgarejo, che durò dal 1864 al 1871 quando un altro colpo di Stato mise finalmente un termine al suo dominio assoluto - e alla sua stessa vita - è ricordata con tale odio da parte dei cittadini che ancora oggi circolano degli episodi che hanno i contorni della leggenda sulla vita del dittatore.
Si dice così che alla base della sua decisione di firmare l'infame trattato di Ayacucho, con cui la Bolivia cedeva inopinatamente parte del suo territorio al Brasile, vi fosse il dono di un bellissimo cavallo bianco che un ministro brasiliano fece a Melgarejo. Questi, come ringraziamento, prese una mappa della Bolivia e vi disegnò sopra una testa di cavallo dicendo "Io ricambio il dono offrendovi questa parte della nazione".
In un'altra occasione, Melgarejo sarebbe venuto a conoscenza dell'invasione della Francia da parte della Germania, nel 1870, ed essendo un fanatico del can-can avrebbe deciso di inviare le sue truppe a difendere strenuamente Parigi. Quando un generale gli fece notare che il suo ordine era piuttosto arduo da eseguire, e che le truppe avrebbero dovuto attraversare l'Oceano Atlantico, il dittatore adirato rispose: "Non dica corbellerie, incompetente! Prenderemo una scorciatoia per i boschi!"

Con questo racconto tragicomico abbiamo quindi lasciato Tarata e siamo tornati nella città di Cochabamba. Da lì, abbiamo fatto ancora un'altra splendida escursione al Parco dei dinosauri di Torotoro, che sarà l'oggetto del prossimo articolo del blog.

domenica 7 luglio 2013

Heart of Darkness


Dopo le giornate lente ed assolate passate a Sucre, lo spostamento nella città mineraria di Potosì ha rappresentato per noi una nuova immersione nelle Ande più maestose.
Situata a 4100 metri d'altezza e spazzata tutto l'anno da venti gelidi che rendono già di per sé la vita in città una sofferenza, Potosì è il simbolo per antonomasia della colonizzazione spagnola più avida e spietata in Sudamerica.

Le circostanze della fondazione della città sono avvolte nella leggenda. Si dice che nel 1544, all'indomani della Conquista dell'Impero incaico, l'indigeno Diego Huallpa stesse portando al pascolo nella regione i suoi lama. Ad un certo punto, uno dei lama brucò un filo d'erba e dal suolo cominciò a sgorgare un liquido denso e grigiastro: era argento purissimo. La leggenda narra anche come l'indigeno non riuscì a serbare per sé il segreto della scoperta, ed in poco tempo gli Spagnoli diedero inizio all'estrazione del materiale prezioso dalle viscere di quello che da allora sarebbe stato chiamato Cerro Rico, la Montagna della Ricchezza.
Quasi cinquecento anni e otto milioni di minatori morti dopo, il Cerro Rico si staglia ancora lì, nonostante le esplosioni, gli scavi e le trapanature che hanno subito le sue viscere e le sue pendici.

La città di Potosì fu così creata dall'esigenza di controllare da vicino i lavori di scavo minerario. L'aspetto odierno è il risultato dell'incredibile afflusso di denaro che per secoli si riversò nelle tasche dell'aristocrazia spagnola cittadina. I nobili facevano a gara per costruire le chiese più imponenti, i palazzi più sfarzosi, i campanili più alti. Tuttavia, camminando per le strette strade di questa città inerpicata sulle montagne, l'atmosfera pare cupa e opprimente, come se risentisse di tutte le violenze, le ingiustizie e gli eccessi perpetrati qui nel corso di tre secoli di colonizzazione.

Ciò che ha colpito di più la nostra immaginazione sono stati comunque i conventi e le chiese che si susseguono innumerevoli a Potosì, così diversi tra loro nell'estetica e nella storia.
Il nostro stesso ostello, il Maria Victoria, era un antico convento di suore rimasto del tutto intatto nonostante il trascorrere del tempo - magnifico patio in pietra e camere ghiacciate senza riscaldamento comprese !!

Il convento di Santa Teresa, poi, ci ha impressionato per il lusso smodato degli ornamenti sacri, tutti in oro e argento purissimo, e per la vita assai contraddittoria che vi spendevano le monache. Esse infatti erano tenute ai più rigidi vincoli di silenzio, castità e isolamento, ma allo stesso tempo avevano diritto a doti milionarie che passavano al convento, e potevano persino costruirsi meravigliose cappelle private istoriate dai migliori pittori e scultori del tempo. In risposta alle nostre domande, la guida ci ha spiegato che il convento di Santa Teresa era un vero e proprio luogo di cooptazione dell'élite femminile spagnola cittadina nelle più alte gerarchie religiose. Infatti, sebbene le monache vivessero in uno stato di segregazione e povertà materiale, esse gestivano in realtà un grande potere simbolico e persino economico, spostando grandi quantità di denaro nelle differenti opere religiose. Per questo motivo, solo le giovani donne provenienti dalle famiglie più facoltose erano accettate nel convento. Ed ovviamente, le monache erano strettamente criolle, ovvero spagnole nate in Bolivia da genitori spagnoli, senza nessuna possibilità d'ingresso per le mestize - figlie di spagnoli e indigene - né, ovviamente, per le indie.

Roofs of Potosi, Bolivia - click on the picture to see the entire photogallery


Atmosfera del tutto differente è stata quella che abbiamo respirato entrando nel convento dei francescani. Qui, infatti, i preti missionari accoglievano clandestinamente gli indigeni che tentavano di scappare al duro regime di schiavitù e sfruttamento al quale erano sottoposti nelle miniere. I francescani li proteggevano e nascondevano, e molti tra di essi restavano a tempo indeterminato nel convento. La conferma di queste storie ci è arrivata visitando la cripta del convento di San Francesco, dove sono conservate molte ossa di cui è ormai impossibile discernere l'appartenenza, di modo che i resti mortali degli indios fuggiaschi e dei preti spagnoli che tentarono di aiutarli in vita sono mescolati per l'eternità nell'uguaglianza che cercarono di praticare in vita.

I cinque giorni che abbiamo passato a Potosì, resistendo al freddo e alle vertigini causate dall'altitudine, sono stati tra i più intensi del nostro viaggio. Così, per spezzare il ciclo di visite e di stanchezza, ci siamo concessi una visita alle acque termali di Tarapaya.
Quest'escursione di una giornata, che secondo le nostre informazioni doveva costituire uno svago senza troppe pretese, si è rivelata in realtà una gita meravigliosa in una natura dolce e ospitale. Dopo un'oretta di minibus che dalla città ci lasciò su una strada nel mezzo del nulla, iniziammo una camminata tra le montagne che ci portò infine ad un meraviglioso lago perfettamente circolare. Si trattava dell'Occhio dell'Inca, uno specchio d'acqua sulfurea a 70 gradi, che la leggenda vuole essere l'occhio di Huayna Capac, l'imperatore incaico che scoperse la località e se ne innamorò al punto da tornarvi ogni estate per rigenerarsi con le acque e i fanghi benefici del lago.

Il nostro ricordo di Potosì, ad ogni modo, resterà segnato indelebilmente nella nostra memoria per ragioni molto diverse dalla bellezza dell'architettura religiosa o dal benessere causatoci dalle acque termali.
Non potevamo infatti partire dalla città senza aver visitato le miniere d'argento che da 500 anni depredano il cuore del Cerro Rico delle sue risorse,  o senza aver parlato con i minatori che ogni giorno rischiano la vita nelle viscere della terra, combattendo contro il rischio concreto di una morte per incidente e la certezza a lungo termine di contrarre la silicosi, la terribile malattia dei polmoni che si avvera letale in una gran percentuale dei casi.

L'esperienza in miniera è di quelle così forti da non darti la possibilità di restare neutrale. Molti dei viaggiatori che abbiamo incontrato a Potosì si sono rifiutati di compiere la visita, ritenendola un puro esercizio di voyeurismo da parte dei turisti occidentali. Altri invece vi hanno partecipato senza riuscire a portarla a termine, troppo choccati da ciò che avevano visto o prostrati dalle estreme condizioni ambientali nella miniera. Pur consapevoli dei rischi, morali e fisici, che comportava una tale veritiera 'discesa negli Inferi', noi abbiamo comunque deciso di prendere parte al giro delle miniera, per toccare con mano la realtà delle vite di queste persone che si riproducono pressoché inalterate dai tempi della Colonia.

La nostra guida in quest'esplorazione è stato Beymar, un ragazzo di 28 anni che era stato minatore quando era solo un bambino, prima che suo padre lo prendesse per un orecchio e lo obbligasse ad andare a La Paz per studiare turismo, salvandolo al destino cui tanti suoi compagni meno fortunati sono stati destinati.
Beymar è una persona incredibile, che unisce una formazione universitaria sulla storia delle miniere ad un rispetto immenso per le tradizioni - e le manie - dei minatori. La nostra visita è cominciata con un giro al 'Mercato delle Miniere', dove i lavoratori comprano i pochi beni necessari alla giornata di estrazione sottoterra. Innanzitutto il puro, un disgustoso alcolico a 96 gradi, contenuto in una bottiglia per acqua ossigenata che reca l'inquietante dicitura 'alcool potabile'. Con questo trago - bevanda - i minatori si stordiscono nelle giornate più dure e puntualmente si ubriacano fino all'incoscienza nei weekend, per festeggiare un'altra settimana da sopravvissuti. Poi le foglie di coca, utilizzate metodicamente da tutti i minatori per ammazzare la fatica e la fame. Già gli Incas le utilizzavano perché masticare la coca rendeva il popolo più tranquillo e mansueto. I conquistadores proibirono all'inizio il suo consumo, seguendo l'idea che si trattasse di un rituale pagano. Tuttavia, quando anche la Chiesa si rese conto che la coca rendeva gli schiavi più resistenti e docili, il consumo delle foglie ridivenne legale ed anzi venne incoraggiato al punto che ancora oggi nessun minatore si sognerebbe di entrare in miniera senza un sacchetto con sé. Infine, ça va sans dire, i lavoratori acquistano al mercato la dinamite, che si vende liberamente anche a bambini di 11-12 anni. Beymar ci mostra come si assembla il plastico con la nitroglicerina, e ci spiega come assistere ad un'esplosione sia una delle esperienze più devastanti che si possano fare in miniera. Innanzitutto perché il rumore lacera le orecchie e l'anima. "E' come un martello che ti spacca la testa e il cuore", ci spiega. Poi perché nessuno può mai garantire sugli esiti di un'esplosione nella miniera, per quanto 'controllata' essa sia. C'è sempre la possibilità di uno smottamento assassino della terra, di un rinculo imprevisto della dinamite, della rottura letale di un tubo del gas o dell'acqua. Beymar ci dice che nella miniera dove ci porterà lui non ci saranno esplosioni oggi, e che di questo dovremmo ringraziare Dio.

Commossi e già toccati dalle storie della nostra guida, acquistiamo un po' di coca e delle bibite non alcoliche da distribuire ai minatori dentro la montagna e ci rimettiamo sulla macchina di Beymar, che comincia a salire sul Cerro Rico. Mentre proseguiamo l'ascensione della montagna il nostro amico ci spiega che, delle centinaia di miniere che esistevano nel 1600, oggi ne sono rimaste aperte solo 22. Per 'miniera', ci dice Beymar, si intende l''ingresso' nella montagna. Ogni miniera veniva in passato amministrata da un gruppo di sovraintendenti spagnoli, e lavorata sempre dagli stessi schiavi - fino a che essi non morivano, ovviamente. L'estrazione forsennata e scriteriata dell'argento ha prosciugato le vene del Cerro Rico, ed oggi è molto raro imbattersi in un buon filone. Da qui la riduzione drastica del numero di miniere. Ovviamente i lavoratori non sono più schiavi, essendosi organizzati in cooperative di cui loro stessi possiedono delle percentuali a partire dall'inizio del 1900. Tuttavia, al padrone spagnolo dei tempi della colonia si è sostituito oggi il mercato. I minatori vivono di quello che vendono, vendono quello che estraggono e considerata la scarsità dell'argento sono obbligati a lavorare anche 12 ore al giorno nella pancia della montagna, con turni che non permettono loro di uscire per riposarsi, mangiare o fare una doccia.

Beymar ci spiega che la miniera che visiteremo noi si chiama 'Rosario' ed è stata aperta verso la fine del XIX° secolo. Ci armiamo di casco contro la caduta dei massi e di tuta gialla - ''diversa da quella dei minatori, per distinguervi in caso d'incidente'', ci dice la guida - ed entriamo nella galleria che ci porta in verso il centro della montagna. Il soffitto della miniera è bassissimo, poiché ogni centimetro di spazio rubato alla montagna è costato il lavoro e la vita di innumerevoli lavoratori. I minatori si muovono in assenza totale di luce, fatta eccezione per quella posta sulla lampadina sulla loro testa. Più si scende verso il basso, più il calore è insopportabile e le nostre tute da lavoro si inzuppano di sudoreL'aria è irrespirabile a causa degli effluvi tossici che permeano dalle pareti. Il suolo è scivoloso perché il fango si mischia con l'acqua che cola dalle pareti e solo grazie agli stivali di gomma riusciamo a mantenere un equilibrio precario. In più il soffitto si abbassa progressivamente fino a sfiorare il suolo in molti punti, obbligandoci ad avanzare carponi e a strisciare nel fango

Come se non bastasse, dopo qualche minuto che camminiamo Beymar sente un fischio e ci esorta ad appiattirci contro il muro. Improvvisamente spuntano due minatori che spingono un carrello di ferro nel fango, facendolo sfilare a tutta velocità oltre di noi. Beymar ci spiega che è con questi carrelli, che non posseggono freni, che i lavoratori trasportano i minerali estratti e le pietre schizzate ovunque dopo le esplosioni. Ogni carrello può pesare fino a 150 kg, e sono sono solo in due a spingerlo.


Miners pushing a hand truck in the Rosario mine, Cerro Rico, Potosì - click on the picture to see the entire photogallery

Continuando l'esplorazione, arriviamo in una zona dove si trova una voragine nel suolo da cui spunta una corda. Beymar ci spiega che buchi como questo vengono scavati ultimamente per cercare di esplorare delle parti di montagna rimaste intatte finora. Poi si china verso la buca e urla qualcosa. Dopo poco un uomo spunta fuori dal buio fitto e passa qualche minuto a parlare con noi. Ci dice di chiamarsi Mario, e di essere uno dei veterani della miniera. A quanto pare lavora nella Rosario già da 20 anni, cifra eccezionale per un minatore di Potosì. La maggioranza, infatti, anche escludendo gli incidenti mortali o invalidanti, si ammala di silicosi dopo circa otto anni di lavoro, e pochissimi superano i quindici anni in miniera, perché la malattia in stato avanzato comporta una bronchite cronica che rende gli uomini inabili. 

Mario ci racconta tante storie e ci spiega di aver lavorato per due anni insieme a Beymar nella miniera: "Il problema è che fare il minatore per i bambini di Potosì è una sorta di prova di virilità. Quando sei a scuola c'è sempre qualcuno che ti sfida a farlo e tu devi mostrarti all'altezza. La prima settimana in quest'inferno vuoi morire, ogni sera torni a casa e non vuoi nemmeno sentir nominare il Cerro Rico. Poi però ti arriva la paga, e capisci che quei pochi soldi sono soldi tuoi, e li puoi spendere in puro o per far colpo sulle ragazze, e allora le settimane si accumulano una dopo l'altra e tu hai già la tua vita dietro di te. Quando Beymar iniziò a lavorare io avevo diciannove anni e lavoravo giù qui da 5. Si vedeva che era un ragazzo sveglio, uno che avrebbe potuto studiare, però non avrebbe mai abbandonato la miniera se suo padre non l'avesse obbligato ad andare a studiare a La Paz".
Mario poi ci saluta e torna nel suo buco e noi ci giriamo verso Beymar per ricevere da lui qualche commento, ma il nostro amico ci sorride in maniera imbarazzata e si rimette a camminare.

Piuttosto, Beymar ci informa che l'ultima tappa della nostra esplorazione sarà la visita al Tìo, il Diavolo.
All'inizio non capiamo esattamente cosa intenda la nostra guida, ma poi arriviamo in uno slargo nella miniera e realizziamo che cos'è il Tìo. Una statua di fango di grandi dimensioni dai tratti luciferini troneggia nello spiazzo, con tanto di corna e fauci spalancate. I lavoratori ne costruiscono una in ogni miniera. Il culto del Tìo risale ai tempi della Colonia, quando gli schiavi indigeni non si fidavano a pieno delle divinità importate dagli Spagnoli. Così, il regno della luce, la città, erano i luoghi della religione cattolica, di Dio e Gesù Cristo, i santi e i preti. Però la pancia della montagna apparteneva all'oscurità e alle forze degli abissi, cioè al Diavolo. Così, gli indios veneravano il Tìo, tentavano di farselo amico e di evitare la sua ira, che si manifestava invariabilmente con gli incidenti che portavano alla morte di così tanti minatori. 

Il culto del Diavolo della miniera si è perpetrato fino al giorno d'oggi, ed i minatori cercano di accaparrarsi il favore del Tìo lasciando offerte di varia natura vicino alla sua effige. E così insieme a Beymar anche noi ci sediamo accanto alla statua, infiliamo una sigaretta accesa tra le labbra del mostro, poniamo delle foglie di coca tra le sue mani e brindiamo alla sua salute con sorsate di puro tritabudella che ci brucia la gola e solleva lo spirito. Niente a che vedere comunque con ciò che fanno i minatori ad ogni fine settimana, quando cantano e bevono fino all'incoscienza per ringraziare il Tìo di essere ancora vivi. O ciò che succede durante le feste per il Carnevale, quando all'alcool si aggiungono le decorazioni festive e il sangue di diversi lama sacrificati a maggior gloria del diavolo.
Beymar ci consiglia un film, che abbiamo poi visto e che ci ha commosso, sulle vicende dei minatori di Potosì. Si chiama El Minero del Diablo, e si trova in spagnolo,  inglese e tedesco. E' un documentario sulla vita di un bambino di dodici anni che deve lavorare in miniera per vivere e sostenere la sua famiglia. Nella sua storia si riflettono le storie di Beymar, di Mario e di tante altre persone come loro. Vi consigliamo fortemente di procurarvi questa pellicola, ne vale proprio la pena!

Finalmente la visita è finita, e noi usciamo dalla miniera Rosario nel Cerro Rico con un magone nel cuore, ma anche con una consapevolezza diversa di una realtà così dura e difficile da immaginare senza averla, anche solo per qualche ora, toccata con mano.
Potosì, con i suoi alteri splendori e le imbarazzanti miserie, resterà una tappa paradigmatica del nostro viaggio in America latina, che serberemo nella memoria come monito contro la cupidigia dell'uomo e lo sfruttamento scellerato delle risorse della Madre Terra.

lunedì 1 luglio 2013

Lost in Transition


Dopo le fatiche del Deserto di Sale, abbiamo deciso di concederci un po' di riposo a Sucre, la capitale della nazione boliviana, città d'arte coloniale e luogo dal clima dolce e temperato, grazie all'altitudine notevolmente più bassa rispetto alle fredde terre dell'Altiplano.
Nella settimana passata in città abbiamo scattato poche foto, non perché non vi fossero siti d'interesse ma piuttosto perché invece di girare come trottole con la macchina in mano abbiamo preferito adattarci ai ritmi lenti della città, sorseggiando succhi di frutta spremuti per strada per soli 3-4 Bolivianos (0.35 centesimi di Euro!), mangiando ricche macedonie di frutti esotici al mercato o stendendoci al sole nelle belle piazze alberate del centro.

Un luogo ci ha comunque colpito più degli altri, e non potevamo esimerci dal raccontarlo attraverso le immagini. E' il Convento di San Filippo Neri, costruito nel 1795 ed inizialmente utilizzato come  seminario per l'iniziazione dei futuri monaci alla carriera religiosa. Oggi è un collegio religioso per ragazze, in cui si entra dal cortile per poi visitare le varie stanze, la biblioteca, la cripta. Ma è la salita sul tetto che ci ha lasciato davvero senza parole. Le scalette a chiocciola ci hanno proiettato su una terrazza bianchissima dal quale abbiamo goduto di una vista eccezionale sugli edifici coloniali altrettanto bianchi della città. Il silenzio che avvolgeva il luogo, i sedili in pietra scolpiti per permettere ai monaci di riflettere nella quiete, le campane che si stagliavano nei cieli blu ci hanno fatto passare un paio d'ore di pace e riempito l'anima di vedute meravigliose.

The roofs of the San Felipe Neri convent in Sucre, Bolivia - click on the picture to see the entire photogallery

Ma il soggiorno a Sucre è stato per noi soprattutto segnato dal trekking che abbiamo fatto nella Cordigliera dei Frati, un tratto particolare delle maestose Ande.
Nonostante le numerose agenzie che proponevano escursioni più o meno costose e organizzate, abbiamo come al solito deciso di fare tutto da soli, confortati dalla presenza di tre fantastici compagni di viaggio: Noam, Luud e Pieter, tre ragazzi incontrati per caso in città e che decisero da un momento all'altro di imbarcarsi con noi in questa avventura.

L'escursione è nata con un viaggio paradossale su una camionetta stipata di gente dove siamo riusciti tutti e quattro a montare quasi per miracolo. Pochi attimi prima della partenza, poi, tutti i contadini che si trovavano sulla carretta si sono pigiati nell'estremità della carretta verso l'abitacolo lasciandoci interdetti a guardarci negli occhi. La spiegazione di questo loro comportamento si è palesata qualche istante dopo, quando le portiere sul retro si sono spalancate e quattro tori (!?) hanno fatto il loro ingresso nel veicolo già sovraffollato, sistemandosi letteralmente accanto a noi. All'inizio eravamo tutti un po' traumatizzati, vista anche la lunghezza delle corna dei tori e l'instabilità del pavimento della camionetta, che più volte causò lo sdrucciolìo degli animali verso di noi. Tuttavia con il passare del tempo, i sorrisi timidi che ci regalavano i bambini e le vecchie campesine accanto a noi, le birre che ci eravamo portati e le chiacchiere che scambiavamo contribuirono ad alleggerire la tensione e dopo tre ore di viaggio faticoso arrivammo infine a destinazione.


Hats off to the bulls! - video

La prima giornata di cammino nella Cordigliera si è rivelata facile e gradevolissima soprattutto perché il sentiero, un'antica strada costruita dagli Incas per permettere ai messaggeri di consegnare la posta da un lato all'altro dell'Impero, era tutto in discesa. Abbiamo così approfittato per conversare con i nostri tre compagni di viaggio e per immergerci poco a poco nello scenario imponente delle Ande, con i suoi colori cangianti e i pochissimi abitanti al lavoro in abiti tradizionali.
Ad ogni modo, il sentiero si rivelò più lungo del previsto e giungemmo alla meta che ci eravamo prefissati per la giornata quando già faceva buio. In più, non c'era nessuno in giro e per qualche minuto tememmo di dover dormire in un riparo di fortuna, quando una signora si fece viva e ci condusse in una struttura straordinaria, una specie di trullo alla boliviana con vetri colorati e caminetto che ci permise di riposare per bene dopo una giornata di peripezie.

Mighty sights from the Inca Road in the middle of the Cordillera de los Frailes  click on the picture to see the entire photogallery

Il giorno successivo è stato è stato molto diverso dal primo e la notte seguente ci ha visti, stremati ed ancora spaventati, parlare e riflettere su come la nostra scelta di viaggiare sempre in maniera indipendente comporti a volte dei rischi considerevoli.
Questi i fatti: partiti di buon ora la mattina, scalammo un monte senza problemi e a mezzogiorno eravamo in vetta, dominando la Cordigliera e i suoi immensi spazi. Tuttavia, questa è una zona completamente deserta, dove non passa un turista e non c'è un'indicazione che possa suggerire il sentiero da prendere per recarsi in qualunque luogo. Tutto ciò che possedevamo noi era un mappa dell'area che avevamo preso a Sucre, e che si rivelò in breve del tutto inadeguata vista l'enormità della zona che ci ritrovavamo a percorrere e la totale assenza di qualsiasi segnalazione.

Così, camminammo a caso fino al pomeriggio, quando la fatica iniziò a farsi sentire, le scorte di acqua ad assottigliarsi minacciosamente e soprattutto la luce ad affievolirsi poco a poco. A quel punto, eravamo troppo lontani dal rifugio della notte precedente per potervi tornare, e non avevamo idea di quale altro punto potessimo raggiungere per dormire al coperto. La prospettiva di passare la notte all'addiaccio ci pareva così orribile che iniziammo a camminare ancora più veloci e angosciati, quando finalmente ci imbattemmo in una casetta e bussammo alla porta.
Un ragazzo ne uscì e si offrì di accompagnarci a un'abitazione "poco lontana" dove avremmo potuto mangiare e trovare riparo. In realtà, si trattò di una camminata di un'ora e passa, di certo una delle più spaventose della nostra vita. A quanto pare ci eravamo allontanati parecchio dalla retta via, quindi la nostra 'guida' suggerì di tagliare le montagne per via trasversale in modo da raggiungere la destinazione prima che facesse buio pesto. Sì, ma questo significava camminare, o più spesso lasciarsi scivolare, sui pendii scoscesi e sconnessi delle Ande, con strapiombi a picco per centinaia di metri!
Alla fine, arrivammo comunque sani e salvi alla dimora del nostro futuro ospite, un personaggio eccezionale per cui vale la pena di spendere due parole. Quest'uomo, il cui nome in quechua è ormai sfumato nelle nostre memorie, ha vissuto tutta la sua vita nella Cordigliera dei Frati apprendendo e assimilando le tradizioni dei padri. Con la sua splendida famiglia alleva in questo sperduto angolo di mondo qualche lama e altri animali, coltiva la terra fredda, suona gli strumenti folklorici delle tradizioni indigene e... si dedica alla paleontologia!

Appena arrivati, il nostro ospite ci sistemò nella camerata dove avremmo passato la notte (che pagammo 5 Bolivianos a testa, ossia 0.50 Euro!) e ci invitò intorno al tavolo dove sua moglie si mise a prepararci una cena tanto umile quanto ambita dalle nostre bocche affamate da una giornata di camminata e digiuno. Lì, il nostro nuovo amico imbracciò il charango, lo strumento nazionale boliviano (una specie di ukulele o piccola chitarrina), cui mancavano persino tre corde, e si mise a strimpellare per tutta la notte delle canzoni in lingua quechua che, ci disse, parlavano di amori mitologici e guerre spietate e alcool e sogni che erano premonizioni


It don't mean a thing, if it ain't got that swing ! - the video is very dak so just enjoy the music

Una volta smesso di suonare, il nostro ospite ci spiegò cosa intendeva quando diceva di essere 'paleontologo'. Nel 1992 in seguito alla lettura di un articolo che parlava dei dinosauri in Sudamerica, si rese conto che la Cordigliera dei Frati era nella Preistoria un luogo molto popolato da questi rettili, e decise di mettersi all'opera. Con lo spirito di osservazione tipico di quegli uomini che crescono a contatto diretto con la natura individuò delle zone plausibili per cominciare gli scavi, e in breve tempo portò alla luce decine e decine di impronte di dinosauri di molte specie diverse!
Estasiati dal racconto, ma distrutti dalla fatica andammo infine a letto, passando una notte di freddo artico ma di grande serenità.

Il giorno dopo il nostro ospite ci portò a visitare i suoi scavi. E' stato impressionante vedere così tante impronte di carnivori ed erbivori a così poca distanza, a suggerire che quello dei dinosauri era un ecosistema con i suoi equilibri proprio come la savana o la foresta amazzonica, ed immaginarsi il tirannosauro o il velociraptor vivessero isolati per entrare in contatto con gli altri animali solo negli episodi di caccia è puro folklore da Jurassic Park.


Our awesome host posing with his beloved charango - click on the picture to see the entire photogallery

Lasciato il nostro ospite con abbracci e ringraziamenti, il terzo giorno di cammino è filato via liscio e tranquillo perché il sentiero era di nuovo in discesa, e soprattutto perché abbiamo incontrato un altro gruppo di ragazzi che avanzavano spediti nella nostra stessa direzione. Visti gli eventi del giorno prima, abbiamo deciso di accodarci. Tuttavia, un acquazzone torrenziale ha ricordato a tutti che in America latina è pur sempre la stagione delle piogge, e alla fine della giornata, dopo una decina di ore di cammino per uscire dal centro della Cordigliera, eravamo zuppi e distrutti. La serata passò comunque in allegria e amicizia con i nostri tre compagni di viaggio in un ostello, tra chiacchiere e rievocazioni degli avventurosi eventi degli ultimi giorni. Il giorno dopo prendemmo il bus per tornare a casa, che in sei interminabili ore passate in piedi ci riportò nella città di Sucre.

Il bilancio di quest'esperienza è stato incredibile. Paesaggi mozzafiato, clima impervio, fatica, un po' di angoscia e la sensazione di essere liberi e al centro del mondo sono sensazioni  alternatesi e spesso sovrappostesi nei nostri cuori. Di certo non dimenticheremo mai la Cordillera de los Frailes, centro ideale dell'incontro tra forza della Natura selvaggia e desiderio di conoscenza dell'Uomo.